«il viaggio»
Mi ero quasi arreso all'idea che questa vigilia non avrebbe avuto fine.
Sera dopo sera, sarei sceso a lucidare il mio sogno, quasi fosse davvero il momento di partire, ma non sarei partito mai.
Prigioniero di una veglia senza tempo, in bilico tra il sospetto che esista davvero qualcosa da inseguire e l'incapacità di tagliare i fili e lasciarmi alle spalle tutto ciò che
alle spalle sarebbe rimasto. E invece, no. Accade così. All'improvviso.
Il punto esclamativo che ci fa da bussola piega la schiena e diventa interrogativo. Resta lì, immobile, affacciato alla finestra della coscienza, con il sorriso di chi attende una risposta.
Possiamo voltarci dall'altra parte, fingere di ignorarlo, ascoltarlo o meno, ma non possiamo ricacciarlo là da dove è venuto. Mi ha preso in contropiede, in un'ora di quelle
che abitano la terra di nessuno, che divide la notte dal giorno e mi ha costretto ad aprire la carta geografica dell'esistenza, seguire con il dito le strade percorse e indagare le ragioni
che, ad ogni bivio, mi hanno spinto a prendere quella e non un'altra discrezione.
Non fosse stato per quel palloncino che, dietro la finestra, saliva a cercare il tetto della notte, non avrei mai trovato la forza di andare. C'era un'energia sconosciuta in quell'immagine: il richiamo
irresistibile di stagioni lontane. Ha attraversato la pelle della memoria come una rasoiata, scaraventandomi nel cuore del bambino che sono stato e ricordandomi che per quello sguardo —l'unico
capace di verità e stupore insieme—
ho sempre provato nostalgia. Nostalgia di una stagione nella quale riuscivamo a prendere tutto anche dal niente, il cui richiamo sale ancora più forte adesso, in questo presente nel
quale riusciamo a non prendere niente nemmeno dal tutto.
Sono uscito che lei Domani dormiva ancora, incapace di spiegarle che avevo bisogno di strapparmi di dosso una realtà nella quale l'evidenza soffoca e inganna. Un arrivederci, non un addio.
Sarei tornato, trovata la terra di utopia, dove le cose sono come dovrebbero essere:
un mondo a forma di lei.
Viaggiare per viaggiare, senza barattare il viaggio con la meta, ne preoccuparmi del fatto di non sapere bene dove andare. Meno si sa, più
si va lontano, pensavo. Legando un'ancora e un aquilone, ho tracciato la rotta. Un viaggio verticale, a cercare il cielo al di là del sole e la terra sotto il mare, attraversando questo abisso
di luci e suoni a riempirmi gli occhi di meraviglie, come se ogni secondo fosse l'ultimo, dentro il dolore amaro del non poter versare quell'abisso anche nel suo cuore.
Volevo raggiungere il tempo e fissarlo, almeno un istante, negli occhi, per capire cos'è questa cosa che abbiamo creato e che, a un certo punto, ci sfugge di mano, ci rende schiavi e ci uccide.
Ma, di fronte a questa notte senza fondo, ho capito che fissare il tempo negli occhi non si può. Se siamo fortunati, riusciamo appena a scorgerne la coda. Ma è bugiarda come l'orizzonte:
più ti avvicini, più si allontana. Il futuro è così, inganna da lontano e il tempo si traveste da spazio.
Per smascherarlo ho costruito questo oggetto strano. L'orologio che divide con me questa stanza. L'unico che mi permette di misurare I illusione che non sia più la musica ad andare a tempo,
ma il tempo che va a musica. Sarei potuto arrivare ovunque, ma non sarei mai riuscito a sbarcare da me stesso. I ricordi sono zavorra che pesa della quale, però, non ci si può liberare.
Se li lasci cadere, hai l'impressione di salire in alto, ma, in realtà,
è un altro quello che vola al tuo posto. Mi sono chiesto tante volte se ci fosse qualcuno all'ascolto. Se, da qualche parte, due occhi scrutassero questo lato della notte, se un dito
indicasse nella mia direzione o un orecchio percepisse un suono, un segnale, un respiro lontano e indistinto come la voce del mare per chi si avvicina ad una conchiglia. Ma niente. Sono
domande destinate a vagare senza risposta. Eppure non ho mai smesso di trasmettere.
Né
mi arrendo all'idea che tornerà un tempo nel quale riscopriremo il bisogno e il gusto di incontrarsi. Mentre guardo le foto e lascio scorrere le immagini che ho di lei, mi rendo conto che
non è solo il ricordo che invecchia. Questo profilo che quasi fatico a riconoscere non è l'effetto della distanza o di una memoria che perde definizione e si mangia i dettagli. Domani
invecchia, invecchia davvero. Lo so, lo sento ed evidentemente lo sentono anche queste immagini che cambiano, giorno dopo giorno, tra le mie mani. E' come se lei mi volesse dire qualcosa.
Volesse farmi capire che in questa asimmetria temporale, in questa deriva di anime che si allontanano, siamo destinati a diventare le sponde opposte di un oceano che non potremo mai più attraversare.
Ascolto queste parole vorticare dentro di me e mi chiedo chi sarà
la Domani che incontrerò, se mai mi capiterà di incontrarla. Qui, in questa immensa scatola di vetro che fa soffocare, in questo labirinto infinito, in questa continua partenza senza
arrivo, mi rendo conto che Domani diventerà sempre più
ieri e che non so più dove sia, ne che nome abbia il tempo nel quale poterla raggiungere per essere ancora insieme. Legando il palloncino, mi sono illuso di poter imprigionare il sogno
senza pensare che il sogno nasce libero ed è lui che sceglie noi. Possiamo farci tela per i suoi pennelli, ma non ci è dato dipingere; possiamo lasciarlo atterrare, ma non possiamo
tracciare la rotta.
Deve essere libero di migrare e portare scompiglio in altri cuori e altre coscienze, solo così corriamo il rischio di incontrarlo ancora e ritrovare il desiderio di partire. Così credo
di aver sciolto il nodo e lasciato che volasse via.
E, mentre lo guardo salire verso il tetto della notte, mi piace pensare che possa passare anche davanti alla tua finestra a consegnarti questi pensieri disordinati e la voglia di seguirne la scia.
Chissà, forse, allora riusciremo a incontrarci ancora.
Dopo tutto, se anche tu vedi la stessa luna,
vuol dire che non siamo poi così lontani